Quantomai opportuni, i primi due quesiti referendari promossi dalla CGIL e su cui i cittadini sono chiamati ad esprimersi otto e nove giugno 2025 riguardano un tema centrale del rapporto di lavoro: il licenziamento. Ciò, nel tentativo di riordinare una materia che è, attualmente, il risultato dell’affastellarsi di norme e di interventi demolitori della Corte costituzionale (che ha sollecitato numerose volte il legislatore ordinario ad intervenire per una razionalizzazione della disciplina attualmente in vigore).
Il quesito n. 1 mira, infatti, all’abrogazione del d. lgs. n. 23/2015 (uno dei decreti attuativi del cd. “Jobs Act”, emanato sulla scorta della l. delega n. 183/2014), che contiene il regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo applicabile nei confronti di tutti i lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015, a prescindere dalla soglia dimensionale dell’impresa.
Se il referendum abrogativo dovesse essere approvato, quindi, il regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo per i lavoratori dipendenti da datori di lavoro di maggiori dimensioni (più di quindici dipendenti o più di cinque se si tratta di imprenditore agricolo) tornerebbe ad essere quello previsto dall’art. 18, l. n. 300/1970, come modificato dalla l. n. 92/2012 (cd. legge Fornero). Questa norma trova, ancora oggi, applicazione nel caso di rapporto di lavoro instaurato prima del 7 marzo 2015.
La differenza principale che intercorre tra i due plessi normativi (“Jobs Act” e art. 18 post legge Fornero) riguarda l’ambito di applicazione della tutela reintegratoria, che, nel d. lgs. 23/2015, nonostante gli ultimi interventi della Corte costituzionale, resta residuale e riguarda fattispecie di difficile prova in sede giudiziale (licenziamento nullo, discriminatorio, ritorsivo, intimato in forma orale, quando viene direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o soggettivo, rispetto alla quale resta estranea la valutazione di proporzionalità del licenziamento).
Sebbene quella reintegratoria non sia una tutela che gode di copertura “costituzionale”, come è stato chiarito dalla Consulta, osserviamo come, cionondimeno, la sanzione prevista per il licenziamento illegittimo debba essere – anche in base a quanto previsto dalle fonti internazionali che regolano la materia – dissuasiva, sanzionatoria e in grado di compensare effettivamente il danno subito dal lavoratore a fronte di una estromissione illegittima dal posto di lavoro.
Inoltre, riteniamo che la reintegrazione nel posto di lavoro costituisca l’attuazione, anche nel rapporto di lavoro, di quel generale principio del diritto dei contratti per cui il risarcimento in forma specifica (la reintegrazione) sia preferibile a quello per equivalente (il risarcimento del danno), anche in considerazione dei beni giuridici che la disciplina sanzionatoria del licenziamento illegittimo protegge (in primis, la dignità della persona che lavora, che ha diritto a non subire recessi ingiustificati e che è la parte debole di un contratto caratterizzato da uno squilibrio nella distribuzione dei poteri).
Il quesito n. 2, invece, mira ad eliminare dall’art. 8, l. n. 604/1966, il tetto massimo dell’indennità risarcitoria spettante ai lavoratori licenziati illegittimamente dai datori di lavoro che non rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 18 (assunti prima del 7 marzo 2015 e dipendenti da un “piccolo” datore di lavoro). Attualmente, la norma prevede che il risarcimento possa oscillare tra le 2,5 e le 6 mensilità (aumentabili a 10 e 14 in caso di elevata anzianità di servizio); la ratio di questa norma (che è stata definita da autorevoli commentatori “una diversa forma di recesso ad nutum”, per via dell’esiguità dell’indennizzo), risiedeva nel fatto che a requisiti occupazionali minori corrispondeva una minor capacità di spesa delle imprese. Tuttavia, la stessa Corte costituzionale ha recentemente riconosciuto, con la sentenza n. 183 del 2022, che «il numero dei dipendenti (…) non rispecchia di per sé l’effettiva forza economica del datore di lavoro…», criticando l’esistenza di un «limite uniforme e invalicabile di sei mensilità”, applicabile a datori di lavoro – imprenditori e non – che possono rappresentare realtà molto diverse tra loro. L’abrogazione del tetto massimo all’indennizzo, quindi, consentirebbe di accordare al lavoratore una tutela risarcitoria personalizzata, in considerazione dei diversi parametri che l’ordinamento offre al Giudice per la sua determinazione, senza limitazioni nella quantificazione.