L’articolo 2113 del Codice civile stabilisce che non sono valide le rinunce e le transazioni che hanno ad oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili di legge o di contratti collettivi. L’esempio classico è quello in cui il pagamento delle competenze di fine rapporto, oppure l’assunzione a tempo indeterminato, sia subordinata alla sottoscrizione di una transazione con la quale il lavoratore – spesso a fronte di un corrispettivo irrisorio e sproporzionato – rinuncia a tutte le azioni che potrebbero trovare causa dal rapporto di lavoro intercorso (per esempio, per le differenze retributive per lavoro straordinario, risarcimento del danno per mancato godimento dei riposi settimanali, risarcimento del danno alla salute).
In questi casi, il lavoratore ha la possibilità di impugnare l’accordo – a pena di decadenza – entro sei mesi dalla cessazione del rapporto, oppure dalla sottoscrizione della transazione stessa, se successiva.
La stessa norma, tuttavia, conferisce alle parti la possibilità di sottoscrivere rinunce e transazioni in alcune sedi selezionate, che rivestano determinati requisiti. Oltre alle ipotesi in cui ciò avvenga nell’ambito di una controversia giudiziale (artt. 185 e 420 c.p.c.) a seguito dell’instaurazione di un contraddittorio presso la Sezione Lavoro del Tribunale competente per territorio, è il caso, per esempio, delle transazioni sottoscritte presso l’Ispettorato del lavoro (art. 410 c.p.c.), dinanzi alle Commissioni di certificazione (ex art. 76, d. lgs. 276/2003) oppure in sede sindacale (art. 411, co. 3, c.p.c. e art. 412 ter c.p.c.).
In particolare, quest’ultima tipologia di conciliazione è stata oggetto di molteplici pronunce da parte dei Giudici di merito e di legittimità, che ne hanno delimitato il perimetro di validità al fine di prevenirne usi strumentali che si risolvano in forme di abuso verso i lavoratori. Accade frequentemente, infatti, che ai lavoratori venga fatta sottoscrivere una transazione (con contestuali rinunce) in presenza di un Conciliatore-sindacalista appartenente ad un’organizzazione sindacale a cui non hanno mai conferito mandato e che non gli ha prestato alcuna assistenza; queste transazioni vengono sottoscritte anche in luoghi diversi dalla sede di questa oo.ss., talvolta in videoconferenza o nei locali aziendali.
Con una recente ordinanza, la Cassazione ha stabilito che, ai fini della qualifica di una transazione quale svolta “in sede sindacale”, non è sufficiente che sia presente un rappresentante dell’organizzazione sindacale, se la sottoscrizione è avvenuta in sede aziendale (Cass. civ., sez. lav., 15 aprile 2025, n. 10065). La ragione di ciò risiede nel fatto che il luogo in cui la transazione viene sottoscritta deve essere funzionale a garantire «la libera determinazione del lavoratore nella rinuncia a diritti previsti da disposizioni inderogabili e l’assenza di condizionamenti, di qualsiasi genere». I luoghi selezionati dal legislatore hanno, pertanto, carattere tassativo, perché idonei ad assicurare quella neutralità indispensabile a garantire la libera determinazione della volontà del lavoratore.
Un’altra caratteristica indefettibile ai fini della validità della transazione sottoscritta, per le medesime ragioni di ordine sostanziale, come ha chiarito più volte la Corte di Cassazione, è che al lavoratore sia stata prestata una vera assistenza da parte del rappresentante sindacale dell’organizzazione presso la quale si svolge la procedura.
Che fare, dunque, nei casi in cui la transazione sottoscritta in sede sindacale sia priva dei requisiti la cui sussistenza è necessaria ai fini della sua validità? In questi casi, è pacifico che il regime di impugnazione dell’atto sia quello ordinario, previsto per far valere l’invalidità dei contratti di diritto comune. Pertanto, non opererà il termine decadenziale di sei mesi previsto dall’art. 2113 c.c., bensì quelli – più lunghi – per far valere l’azione di nullità o di annullabilità del contratto (artt. 1418 ss. c.c.).