L’art. 2103, c. 8, c.c. stabilisce che il lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Questo atto rientra nel novero dei poteri che il datore di lavoro può legittimamente esercitare: nel caso in cui le ragioni organizzative siano effettive, attuali e comprovate, il lavoratore può, quindi, essere trasferito.
La giurisprudenza maggioritaria della Cassazione ritiene che l’atto non debba rivestire necessariamente la forma scritta.
Il profilo più problematico relativo alla forma del provvedimento riguarda, tuttavia, la comunicazione, e in particolare il suo contenuto. Un orientamento giurisprudenziale maggioritario più risalente affermava che fosse necessario indicare i motivi, per permettere al giudice di effettuare il controllo sulla legittimità dell’esercizio del potere datoriale. Tuttavia, a partire dal 2012, la giurisprudenza maggioritaria ritiene ora che sul datore di lavoro non incomba alcun obbligo di comunicazione dei motivi del trasferimento, né di fornirli al lavoratore che li richieda.
Ciò non toglie che, ove il lavoratore adisca l’autorità giudiziaria per impugnare l’atto, sul datore di lavoro gravi l’onere di provare i motivi che hanno determinato il trasferimento (nonché il rispetto dei principi di buona fede e correttezza, artt. 1175 e 1375 c.c.).
Corollario dell’art. 41 Cost. è che il giudice non ha il potere di sindacare nel merito la scelta imprenditoriale posta a base dell’atto. Il controllo operato dal Tribunale, come detto, può solo essere teso a verificare che vi sia corrispondenza tra la ragione addotta e il trasferimento del lavoratore destinatario del provvedimento.
Nel caso in cui i lavoratori astrattamente passibili di essere destinatari del provvedimento siano più d’uno, il datore di lavoro gode di un certo grado di discrezionalità nella scelta, fermi gli eventuali limiti introdotti dalla contrattazione collettiva, dai principi di buona fede e correttezza e dalla legge.