Fin troppo spesso accade che, all’interno della propria busta paga, il lavoratore trovi una voce segnalata come “trasferta” o “trasferta Italia”, pur non avendo mai svolto alcuna attività in una sede di lavoro diversa da quella indicata nel contratto individuale di lavoro.
Trasferta, infatti, è, secondo la definizione indicata dalla giurisprudenza, l’“emolumento corrisposto al lavoratore in relazione a prestazione effettuata per limitato periodo di tempo e nell’interesse del datore di lavoro al di fuori della ordinaria sede di lavoro, volto proprio a compensare al lavoratore i disagi derivanti dall’espletamento del lavoro in luogo diverso da quello previsto” (Cass. 14.9.07, n. 19236).
La somma corrisposta come “trasferta” o “trasferta Italia” non è, per legge, considerata di natura reddituale e, di conseguenza, non è assoggettata a tassazione e contribuzione, ossia non incide ai fini pensionistici (diverso è il caso delle somme corrisposte ai lavoratori-trasfertisti, le quali sono imponibili nella misura del 50%), proprio per la sua natura simile ad un rimborso per aver svolto la propria attività lavorativa fuori dalla sede individuata dal contratto di lavoro.
Per tale ragione, il datore, talvolta cela il lavoro prestato dal dipendente a titolo supplementare, festivo o straordinario corrispondendolo in busta paga come “trasferta” o “trasferta Italia”, al fine, verosimilmente, di eludere le norme che impongono una maggiorazione retributiva oraria sull’orario eccedente quello previsto in busta paga ed il pagamento contributivo su quelle stesse ore.
In aggiunta, l’importo corrisposto fittiziamente come “trasferta” al posto dello straordinario, festivo o supplementare, non va nemmeno ad incidere su istituti come tredicesima, quattordicesima e t.f.r., come invece dovrebbe accadere.
La Cassazione, sul punto, ha peraltro sottolineato come “non possono assumere rilievo alcuno le circostanze che la sede legale dell’impresa datoriale e la residenza dei lavoratori erano diverse da quelle in cui si svolgeva l’attività lavorativa, non essendo tali luoghi rilevanti per la identificazione di una trasferta in senso tecnico” (Cass. Civ., sez. Lavoro, 14380/2020).
Tutt’altro discorso, invece, nel caso in cui sussistano contestualmente le seguenti condizioni: a) la mancata indicazione, nel contratto o nella lettera di assunzione, della sede di lavoro; b) lo svolgimento di un’attività lavorativa che richiede la continua mobilità del dipendente; c) la corresponsione al dipendente, in relazione allo svolgimento dell’attività lavorativa in luoghi sempre variabili e diversi, di un’indennità o maggiorazione di retribuzione in misura fissa, attribuite senza distinguere se il dipendente si è effettivamente recato in trasferta e dove la stessa si è svolta.
In tutti questi casi, interpretazione autentica dell’art. 7-quinquies, dl. 22 ottobre 2016 n. 193 (conv. in L. 10 dicembre 2016 n. 225) ha stabilito sia effettivamente da considerare quale lavoratore in trasferta o trasfertista e, dunque, l’emolumento corrisposto a tale titolo sarà perfettamente legittimo.
Pertanto, in tutti i casi in cui non ricorrano le condizioni anzidette, il lavoratore potrà agire in giudizio per chiedere l’accertamento della natura retributiva della voce corrisposta dal datore come trasferta nonché la condanna alla corresponsione delle eventuali maggiorazioni e le incidenze su tutti gli istituti contrattuali.